mercoledì 14 settembre 2011

Rotaie in guerra su contratto di lavoro

Lo scontro fra le imprese ferroviarie private e FS diventa sempre più duro e coinvolge anche la Manovra di Ferragosto, che impone un contratto di lavoro unico per tutti. Soluzione avversata dalle imprese private operanti nelle merci (attraverso la loro associazione FerCargo) e invece favorita da FS (attraverso l'associazione Federtrasporto). I primi chiedono un CCNL specifico per il comparto merci, la seconda ne vuole uno unico nazionale sulla Mobilità (e sta vincendo il primo round).
Scontro tra imprese sul contratto unico per le ferrovie

Camion più costosi per l'IPT

La Manovra di Ferragosto contiene l'impegno ad abolire le Province (rimandato ad una futura ed improbabile norma costituzionale), intanto aumenta subito l'Imposta Provinciale di Trascrizione, ossia quel balzello che si paga per il passaggio di proprietà di veicoli nuovi ed usati. Per quelli pesanti, è una vera e propria stangata, oltre 800 euro per un trattore. Se la norma passerà, sarà interessante vedere chi si accollerà la batosta: il venditore o l'acquirente?
Manovra Ferragosto, forte aumento della IPT

martedì 13 settembre 2011

Sarkozy rincorre il camion

Il presidente francese Nicolas Sarkozy è in forte calo nei sondaggi per le prossime elezioni presidenziali e per recuperare terreno si rivolge anche agli autotrasportatori, una categoria che raramente accede ai tappeti rossi dell'Eliseo. Durante una visita ad un'azienda di trasporto, il presidente si è sperticato in lodi verso l'autotrasporto e ha chiesto al Governo si attuare un pacchetto di misure per lo sviluppo del settore (probabilmente suggerite dall'associazione FNTR).
Sarkozy chiede misure per rilancio autotrasporto francese


Traffico transalpino supera la crisi


Il traffico ferroviario intermodale che attraversa la Svizzera cresce quasi ai livelli del 2008, ossia prima della crisi globale. Segnale non solo della ripresa del trasporto internazionale tra Italia ed Europa Centrale, ma anche dell'efficacia delle politiche a favore dell'intermodalità che la Svizzera sta attuando. Ma che l'Italia non appoggia sul versante meridionale delle Alpi, che è in forte ritardo nel potenziamento delle infrastrutture ferroviarie alle nuove gallerie di base aperte o in lavorazione nel territorio svizzero.

lunedì 7 febbraio 2011

Un vero federalismo portuale

Che il federalismo in Italia sia materia da chiacchiera da bar pedemontani più che da politica - sempre che esista ancora la politica in questo Paese - lo dimostrano le vicende che riguardano le Autorità Portuali. Si può discutere molto sulla loro efficienza e sulla loro modernità, ma almeno hanno finora un'impronta federalista, nel senso che i presidenti dovrebbero essere espressione degli Enti Locali, anche se la loro nomina formale spetta al ministro dei Trasporti. Un ulteriore passo in avanti sta nell'autonomia finanziaria, secondo il dogma leghista secondo cui i proventi fiscali devono essere spesi nel territorio dove vengono prodotti. Però - mentre sembra che il destino del Governo sia appeso ad un decreto sul federalismo - le azioni concrete in ambito portuale vanno in direzione opposta. Di autonomia finanziaria delle Autorità Portuali non si vede traccia, almeno nelle norme recentemente approvate. In compenso, l'auspica il Piano Nazionale della Logistica fin da quest'anno. Ecco una buona occasione per cominciare a metterlo in pratica fin d'ora, convincendo il ministro del Tesoro Giulio Tremonti, ritenuto vicino alle istanze federaliste, che si tratta di un provvedimento che alla fine può offrire un saldo positivo per il Paese.
Ma anche quel poco federalismo relativo alla nomina del Presidente è incrinato dai decreti sul commissariamento e dai veti ministeriali su intere terne di candidati, spesso attuati con motivazioni deboli (come ha rilevato anche Tar nella vicenda di Livorno). Il paradosso è che dove sarebbe importante un intervento a livello nazionale in termini d'indirizzo generale - come è urgente nel transhipment - si demanda la questione alle autorità locali, che magari non hanno risorse e competenze necessarie al rilancio dell'attività. Un altro esempio di mancanza di una strategia nazionale è la "guerra" che si è aperta nell'Adriatico settentrionale tra i fautori di due progetti che sono evidentemente contrapposti: il nuovo terminal container di Monfalcone ed il porto d'altura di Venezia. Alla contrapposizione tra i campanili (Venezia e Trieste), attuata dai presidenti delle rispettive Autorità Portuali, sembra che ce ne sia una all'interno della stessa compagine governativa, con il ministro (veneziano) della Pubblica Amministrazione, Renauto Brunetta, ed il presidente del veneto Luca Zaia, che appoggiano la soluzione veneziana ed il ministro degli Esteri, Franco Frattini, ed il presidente della Regione Friuli Venezia-Giulia, Renzo Tondo, che sostengono il progetto Unicredit. Sarebbe il caso che giunga da Roma una chiara indicazione strategica, chiarendo magari una volta per tutte le funzioni di un nuovo megaterminal nell'Adriatico settentrionale, visto che il transhipment italiano sta perdendo volumi, mentre nel gateway non mancherà certamente nei prossimi anni disponibilità banchina container, considerando i progetti di sviluppo dei porti già esistenti. Forse è il caso d'invertire la polarità di questo "federalismo" portuale.

lunedì 31 gennaio 2011

La prova del fuoco

Da anni sentiamo nei convegni sul trasporto il mantra secondo cui l'Italia sarebbe la "piattaforma logistica del Mediterraneo". Che geograficamente siamo un enorme molo naturale proteso nel mare è evidente, così com'è evidente che in alcuni momenti della nostra storia abbiamo saputo sfruttare questa posizione. In altri momenti, invece, ci siamo ritirati tra le sicure valli, lasciando le coste alle paludi ed i porti sotto il controllo di potenze straniere. E oggi, come siamo messi? Non è chiaro, purtroppo. A parte i proclami, l'Italia non sembra avere una strategia coerente con la sua ambizione di piattaforma mediterranea. La cronaca recente pone in evidenza due esempi. Il primo è la crisi del transhipment a Gioia Tauro, che fino a poco tempo fa era lo scalo leader, mentre oggi si parla addirittura di un suo ridimensionamento a gateway regionale. Da tempo, gli operatori chiedono una legge specifica per il transhipment italiano, che ora diventa veramente urgente. Ma non è affatto chiara quale sia la strategia del Governo su questo tema, tra promesse di sostegno al porto calabrese ed interesse verso nuove megastrutture nell'Adriatico settentrionale.
Questo per quanto riguarda le rotte intercontinentali dedicate ai container. Ma la cronaca coinvolge anche gli scambi bilaterali con il Nord Africa, che negli ultimi anni stanno crescendo in volume e valore. Le rivolte stanno divampando in due Paesi fondamentali per i traffici mediterranei, la Tunisia e l'Egitto. Lo dimostrano, per esempio, i recenti accordi bilaterali siglati tra Roma ed il Cairo proprio sul trasporto di merci e sulla logistica. L'Italia, quindi, ha grandi interessi e dovrebbe diventare il punto di riferimento per indirizzare la transizione (che necessariamente dovrà avvenire) in questi Paesi. Ma anche in questo caso, sembra mancare la convinzione di voler diventare protagonisti: nei primi giorni della rivolta egiziana, la Farnesina è stata muta (forse perché la sua attenzione era rivolta a vicende avvenute sulla sponda opposta del Mediterraneo) e solo dopo una settimana sono apparse alcune dichiarazioni, peraltro generiche.
Gioia Tauro e l'Egitto sono i segnali che in questo momento l'Italia sta giocando le sue carte per diventare veramente il punto di riferimento nei trasporti tra bacino mediterraneo ed Europa. Trascurare queste occasioni significa perdere una partita fondamentale per la nostra logistica.

mercoledì 19 gennaio 2011

I nodi di Gioia Tauro

In questi giorni il porto calabrese di Gioia Tauro è tornato nella cronaca nazionale, con articoli apparsi anche sui quotidiani che normalmente non affrontano le questioni connesse al traffico globale di container. Il pretesto è stato il fermo di trenta ore del terminal Medcenter, avvenuto tra l'8 ed il 9 gennaio per "mancanza di navi", come recita un comunicato ufficiale. Ad aggravare il quadro, c'è la conferma di Contship sulla flessione della movimentazione a Gioia Tauro anche nel 2010, nonostante la ripresa globale dei traffici container. Insomma, ci sono gli elementi per parlare di una crisi dello scalo, per la prima volta dalla sua nascita dovuta all'intuizione di Angelo Ravano, che aveva visto prima di tutti lo sviluppo del transhipment mediterraneo. Ma dall'inizio degli anni Novanta è passata tanta acqua sotto le banchine del porto calabrese ed oggi emergono alcuni nodi che si sono intrecciati negli ultimi anni e che mettono in discussione perfino la stessa sopravvivenza dell'attività dello scalo. Secondo i propri interessi, ogni attore offre la sua spiegazione: concorrenza dei porti nordafricani, bassa produttività dei lavoratori, scarso interesse della politica nazionale, competizione sotterranea tra compagnie. Ogni spiegazione ha le sue ragioni e concorre a formare il quadro generale. Vediamole più da vicino.
Competizione internazionale. Il transhipment di container bene si adatta ai processi di delocalizzazione. In fondo, agli armatori basta dirottare le nevi da un porto all'altro, purché ci siano le necessarie attrezzature. Così, Gioia Tauro ha trovato concorrenti aggressivi, prima in Spagna (Algeciras in testa), poi sulle coste del Nord Africa, dove è sorto TangerMed, che è operativo solo a metà, ma sta già togliendo migliaia di teu a Italia e Spagna. Anche gli egiziani stanno diventando più aggressivi ed in lista d'attesa ci sono già l'Algeria, la Tunisia e perfino la Libia. Queste realtà giocano due assi: un costo del lavoro molto più basso di quello europeo e una posizione più favorevole per le portacontainer che escono da Suez e sono dirette verso Gibilterra per salire verso il Nord Europa (o tornano in Asia). Maersk, la compagnia leader nel mondo ha già scelto, e ha lasciato sia Gioia Tauro, sia Algeciras, a favore di TangerMed. La questione è se tale tendenza sia irreversibile. Il fatto che i principali terminalisti stiano investendo nei nuovi scali del Nord Africa (compresa la stessa Contship) non genera certo ottimismo.
Produttività. La polemica più recente è quella avviata dal patron di MSC, Gianluigi Aponte, sulla scarsa produttività dei portuali calabresi, posizione contestata dai sindacati. La questione rischia di prendere una prevedibile deriva ideologica: da un lato chi accusa le sigle sindacali di coprire l'assenteismo e dall'altro chi accusa gli imprenditori di nascondere in questo modo problemi di gestione e di commercializzazione. Vero è che l'organizzazione del lavoro nel porto calabrese è al centro di un lungo braccio di ferro tra Medcenter ed alcune sigle sindacali, che in passato hanno anche proclamato alcuni scioperi. È indispensabile che le parti facciano finalmente chiarezza sulla questione e, soprattutto, trovino un'intesa per assicurare il futuro del porto. Un primo passo è avvenuto durante gli incontri di questi giorni e spero che si proceda in modo costruttivo.
Ruolo della politica. Il destino del transhipment italiano non deve rimanere nelle mani delle imprese e dei sindacati o, al massimo, degli Enti locali interessati. Deve diventare una priorità nazionale ed il Governo deve assumersi la responsabilità di un piano strategico che coinvolge l'intera Penisola. Lo chiedono tutti: associazioni degli operatori, terminalisti e sindacati. Il Piano nazionale della Logistica accenna alla questione del transhipment, ma gli operatori chiedono azioni immediate, come la prosecuzione della riduzione delle tasse d'ancoraggio, che possano addirittura rientrare nel Milleproroghe (attraverso la sua conversione in legge). In tendenza, chiedono una legislazione specifica per il transhipment. Poi c'è la questione dei nuovi megaprogetti dell'Adriatico settentrionale (Venezia e Monfalcone): oltre ai numeri stratosferici che mostrano, ci vorrebbe maggiore chiarezza sulle loro strategie (saranno scali di trasbordo o d'ingresso?) e del loro ruolo nel contesto del Mediterraneo, per capire a quali traffici intendono attingere, per avere la sicurezza che lo sviluppo di queste strutture non si basi sulla cannibalizazione degli scali meridionali della Penisola.
Lotta tra compagnie. Gioia Tauro è al centro anche di una lotta tra le due principali compagnie marittime mondiali: Maersk e MSC. Con un paradosso: la prima detiene quasi un terzo del capitale di Medcenter, ma ormai non fa più approdare a Gioia Tauro nessuna nave, la seconda alimenta tutto il traffico calabrese e chiede quindi di entrare nel capitale della società terminalista, ma finora senza successo. Una situazione che favorisce alcuni sospetti, emersi in questi giorni. Per esempio, che la compagnia danese abbia interesse a mettere i bastoni tra le ruote per lo sviluppo di un porto usato da suo diretto concorrente o che la compagnia svizzera abbia sospeso l'invio delle navi in Calabria per trenta ore per spingere il suo ingresso nella compagine azionaria di Medcenter. Ma quanto potrà andare avanti questo paradosso? È difficile dirlo, anche perché Contship non può certo imporre ad un suo azionista/cliente di cedere la sua quota ad un concorrente. Ma il nodo della proprietà dovrà essere risolto in qualche modo, altrimenti condizionerà il futuro del porto.
Diversificare l'attività. Questa possibilità è stata prospettata dal presidente della Regione Calabria, Salvatore Scopelliti. In realtà, si parla da molto tempo della creazione di una piattaforma logistica intorno alle banchine calabresi, ma oltre la cancellata del Medcenter ci sono ancora sterpaglie. Per far crescere le attività gateway e un indotto logistico a Gioia Tauro ci vogliono forti investimenti, però quale impresa investirebbe oggi in una zona che notoriamente è controllata dalla n'drangheta? E comunque manca un piano industriale credibile: quali merci potrebbero sbarcare in Calabria, dove dovrebbero essere inoltrate e attraverso quali modalità? Il mercato calabrese non giustifica ingenti investimenti, mentre quelli campani e siciliani hanno già i loro scali di riferimento e propri progetti di sviluppo. Non si può arronzare in poche settimane una strategia di così ampio respiro. Bisognava farlo dieci anni fa, accompagnandola ad una vera pulizia del territorio dalla criminalità organizzata (che nel frattempo ha pervaso l'economia e la politica della regione). Insomma, ci vorrebbe un altro Ravano, ma temo che lo stampo di tali uomini sia perso nei meandri della storia italiana degli ultimi vent'anni.